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Fra la via Emilia
e il West (1984)

 

   

Disco 1

  1. Canzone per un'amica
  2. Autogrill
  3. Il vecchio e il bambino
  4. Il pensionato
  5. L'isola non trovata
  6. Asia
  7. Canzone della bambina portoghese
  8. Canzone delle osterie di fuori porta
  9. Il frate

Disco 2

  1. Piccola città
  2. Venezia
  3. Bologna
  4. Eskimo
  5. Incontro
  6. Vedi cara
  7. Un altro giorno è andato
  8. Canzone quasi d'amore
  9. La locomotiva



Disco 1

CANZONE PER UN'AMICA
Lunga e diritta correva la strada, l'auto veloce correva
la dolce estate era già cominciata vicino lui sorrideva,
vicino lui sorrideva...
Forte la mano teneva il volante, forte il motore cantava,
non lo sapevi che c'era la morte quel giorno che ti aspettava,
quel giorno che ti aspettava...
Non lo sapevi che c'era la morte, quando si è giovani è strano
poter pensare che la nostra sorte venga e ci prenda per mano,
venga e ci prenda per mano...
Non lo sapevi, ma cosa hai sentito quando la strada è impazzita,
quando la macchina è uscita di lato e sopra un'altra è finita,
e sopra un'altra è finita...
Non lo sapevi, ma cosa hai pensato quando lo schianto ti ha uccisa,
quando anche il cielo di sopra è crollato, quando la vita è fuggita,
quando la vita è fuggita...
Dopo il silenzio soltanto è regnato tra le lamiere contorte:
sull'autostrada cercavi la vita, ma ti ha incontrato la morte,
ma ti ha incontrato la morte...
Vorrei sapere a che cosa è servito vivere, amare, soffrire,
spendere tutti i tuoi giorni passati se così presto hai dovuto partire,
se presto hai dovuto partire...
Voglio però ricordarti com'eri, pensare che ancora vivi,
voglio pensare che ancora mi ascolti e che come allora sorridi
e che come allora sorridi..

AUTOGRILL
La ragazza dietro al banco mescolava birra chiara e Seven-up,
e il sorriso da fossette e denti era da pubblicità,
come i visi alle pareti di quel piccolo autogrill,
mentre i sogni miei segreti li rombavano via i TIR.
Bella, d'una sua bellezza acerba, bionda senza averne l'aria,
quasi triste, come i fiori e l'erba di scarpata ferroviaria;
il silenzio era scalfito solo dalle mie chimere,
che tracciavo con un dito dentro ai cerchi del bicchiere.
Basso il sole all'orizzonte colorava la vetrina
e stampava lampi e impronte sulla pompa da benzina;
lei specchiò alla soda-fountain quel suo viso da bambina
ed io sentivo un'infelicità vicina.
Vergognandomi, ma solo un poco appena, misi un disco nel juke-box
per sentirmi quasi in una scena di un film vecchio della Fox,
ma per non gettarle in faccia qualche inutile cliché
picchiettavo un indù in latta di una scatola di tè.
Ma nel gioco avrei dovuto dirle: "Senti, senti io ti vorrei parlare...",
poi prendendo la sua mano sopra al banco: "Non so come cominciare,
non la vedi, non la tocchi oggi la malinconia,
non lascianmo che trabocchi: vieni, andiamo, andiamo via."
Terminò in un cigoilo il mio disco d'atmosfera,
si sentì uno sgocciolio in quell'aria al neon e pesa,
sovrastò l'acciottolio quella mia frase sospesa,
ed io... ma poi arrivò una coppia di sorpresa.
E in un attimo, ma come accade spesso, cambiò il volto d'ogni cosa,
cancellatrono di colpo ogni riflesso le tendine in nylon rosa,
mi chiamò la strada bianca, "Quant'è?" chiesi, e la pagai,
le lasciai un nickel di mancia, presi il resto e me ne andai.

IL VECCHIO E IL BAMBINO
Un vecchio e un bambino si preser per mano
e andarono insieme incontro alla sera;
la polvere rossa si alzava lontano
e il sole brillava di luce non vera...
L' immensa pianura sembrava arrivare
fin dove l'occhio di un uomo poteva guardare
e tutto d' intorno non c'era nessuno:
solo il tetro contorno di torri di fumo...
I due camminavano, il giorno cadeva,
il vecchio parlava e piano piangeva:
con l' anima assente, con gli occhi bagnati,
seguiva il ricordo di miti passati...
I vecchi subiscon le ingiurie degli anni,
non sanno distinguere il vero dai sogni,
i vecchi non sanno, nel loro pensiero,
distinguer nei sogni il falso dal vero...
E il vecchio diceva, guardando lontano:
"Immagina questo coperto di grano,
immagina i frutti e immagina i fiori
e pensa alle voci e pensa ai colori
e in questa pianura, fin dove si perde,
crescevano gli alberi e tutto era verde,
cadeva la pioggia, segnavano i soli
il ritmo dell' uomo e delle stagioni..."
Il bimbo ristette, lo sguardo era triste,
e gli occhi guardavano cose mai viste
e poi disse al vecchio con voce sognante:
"Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!"

IL PENSIONATO
Lo sento da oltre il muro che ogni suono fa passare,
l'odore quasi povero di roba da mangiare.
Lo vedo nella luce che anch'io mi ricordo bene di lampadina fioca,
quella da trenta candele,
fra mobili che non hanno mai visto altri splendori,
giornali vecchi ed angoli di polvere e di odori,
fra i suoni usati e strani dei suoi riti quotidiani:
mangiare, sgomberare, poi lavare piatti e mani.
Lo sento quando torno stanco e tardi alla mattina,
aprire la persiana, tirare la tendina,
e mentre sto fumando ancora un'altra sigaretta andar piano,
in pantofole, verso il giorno che lo aspetta
e poi lo incontro ancora quando viene l'ora mia,
mi dà un piacere assurdo la sua antica cortesia:
"Buon giorno, Professore. Come sta la sua signora?
E i gatti, e questo tempo che non si rimette ancora..."
Mi dice cento volte fra la rete dei giardini di una sua gatta morta,
di una lite coi vicini,
e mi racconta piano, col suo tono un po' sommesso di quando lui
e Bologna eran più giovani di adesso.
Io ascolto, e i miei pensieri corron dietro alla sua vita,
a tutti i volti visti dalla lampadina antica,
a quell'odore solito di polvere e di muffa,
a tutte le minestre riscaldate sulla stufa,
a quel tic-tac di sveglia che enfatizza ogni secondo,
a come da quel posto si può mai vedere il mondo,
a un'esistenza andata in tanti giorni uguali e duri,
a come anche la storia sia passata fra quei muri.
Io ascolto e non capisco, e tutto attorno mi stupisce la vita,
com'è fatta e come uno la gestisce,
e i mille modi e i tempi, poi le possibilità, le scelte, i cambiamenti,
il fato, le necessità,
e ancora mi domando se sia stato mai felice, se un dubbio l'ebbe mai,
se solo ora si assopisce,
se un dubbio l'abbia avuto poche volte oppure spesso,
se è stato sufficiente sopravvivere a se stesso.
Ma poi mi accorgo che probabilmente è solo un tarlo di uno
che ha tanto tempo ed anche il lusso di sprecarlo:
non posso o non so dir per niente se peggiore
sia a conti fatti la sua solitudine o la mia.
Diremo forse un giorno: "Ma se stava così bene..."
Avrà il marmo con l'angelo che spezza le catene,
coi soldi risparmiati un po' perchè non si sa mai,
un po' per abitudine: son sempre pronti i guai.
Vedremo visi nuovi, voci dai sorrisi spenti: "Piacere",
"È mio", "Son lieto", "Eravate suoi parenti?"
e a poco a poco andrà via dalla nostra mente piena,
soltanto un'impressione che ricorderemo appena.

L'ISOLA NON TROVATA
Ma bella più di tutte è l'isola non trovata,
Quella che il Re di Spagna s'ebbe da suo cugino il Re del Portogallo
con firma sugellata e bulla del pontefice in gotico Latino.
Il Re di Spagna fece vela cercando l'isola incantata,
però quell'isola non c'era, e mai nessuno l'ha trovata.
Svanì di prua dalla galea, come un'idea;
come una splendida utopia è andata via e non tornerà mai più.
Le antiche carte dei corsari portano un segno misterioso,
ne parlan piano i marinari con un timor superstizioso.
Nessuno sa se c'è davvero od è un pensiero;
se a volte il vento ne ha il profumo è come il fumo che non prendi mai!
Appare a volte avvolta di foschia, magica e bella,
ma se il pilota avanza, su mari misteriosi è già volata via,
tingendosi d'azzurro, color di lontananza.
Il Re di Spagna fece vela cercando l'isola incantata.

ASIA
Fra i fiori tropicali, fra grida di dolcezza, la lenta, lieve brezza scivolava.
E piano poi portava, fischiando fra la rete, l'odore delle sete e della spezia.
Leone di Venezia, Leone di San Marco, l'arma cristiana è al varco dell'Oriente:
ai porti di ponente il mare ti ha portato i carichi di avorio e di broccato.
Le vesti dei mercanti trasudano di ori, tesori immani portano le stive;
si affacciano alle rive le colorate vele, fragranti di garofano e di pepe.
Trasudano le schiene schiantate dal lavoro, son per la terra mirra, l'oro e l'incenso.
Sembra che sia nel vento, su fra la palma somma, il grido del sudore e della gomma.
E l'asia par che dorma, ma sta sospesa in aria l'immensa, millenaria sua cultura:
i bianchi e la natura non possono schiacciare i Buddha, i Chela, gli uomini ed il mare.
Leone di San Marco, leone del profeta, ad est di Creta corre il tuo vangelo;
si staglia contro il cielo il tuo simbolo strano: la spada e non il libro hai nella mano.
Terra di meraviglie, terra di grazie e mali, di mitici animali da bestiario;
s'arriva dai santuari, fin sopra all'alta plancia, il fumo della gangia e dell'incenso.
E quel profumo intenso è rotta di gabbiani, segno di vani simboli divini.
E gli uccelli marini additano col volo la strada del Catai per Marco Polo

CANZONE DELLA BAMBINA PORTOGHESE
E poi e poi, gente viene qui e ti dice di sapere già ogni legge delle cose.
E tutti, sai, vantano un orgoglio cieco di verità fatte di formule vuote.
E tutti, sai, ti san dire come fare, quali leggi rispettare, quali regole osservare,
qual è il vero vero, e poi, e poi, tutti chiusi in tante celle,
fanno a chi parla più forte per non dir che stelle morte fan paura.
Al caldo del sole, al mare scendeva la bambina portoghese.
Non c'eran parole, rumori soltanto, come voci sorprese.
Il mare soltanto, e il suo primo bikini amaranto:
le cose più belle e la gioia del caldo alla pelle.
Gli amici vicino sembravan sommersi dalla voce del mare;
o sogni o visioni, qualcosa la prese e si mise a pensare:
sentì che era un punto al limite di un continente,
sentì che era un niente, l'Atlantico immenso di fronte.
E in questo sentiva qualcosa di grande
che non riusciva a capire, che non poteva intuire;
che avrebbe spiegato, se avesse capito lei, e l'oceano infinito
ma il caldo l'avvolse, si sentì svanire e si mise a dormire.
E fu solo del sole, come di mani future: restaron soltanto il mare e un bikini amaranto.
E poi e poi, se ti scopri a ricordare,
ti accorgerai che non te ne importa niente.

E capirai che una sera o una stagione
son come lampi, luci accese e dopo spente.
E capirai che la vera ambiguità è la vita che viviamo,
il qualcosa che chiamiamo esser uomini.
E poi, e poi, che quel vizio che ci ucciderà
non sarà fumare o bere, ma il qualcosa che ti porti dentro, cioè vivere.


CANZONE DELLE OSTERIE DI FUORI PORTA
Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta
ma la gente che che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta.
Qualcuno è andato per età, qualcuno perché già dottore
e insegue una maturità: si è sposato,
fa carriera ed è una morte un po' peggiore.
Cadon come foglie o gli ubriachi sulle strade che hanno scelto,
delle rabbie antiche non rimane che una frase o qualche gesto.
Non so se scusano il passato, per giovinezza o per errore,
non so se ancora desto in loro, se m'incontrano per forza,
la curiosità o il timore.
Io ora mi alzo tardi tutti i giorni, tiro sempre a far mattino,
le carte poi il caffè della stazione per neutralizzare il vino;
ma non ho scuse da portare, non dico più d'esser poeta,
non ho utopie da realizzare,
stare a letto il giorno dopo è forse l'unica mia meta.
Si alza sempre lenta come un tempo l'alba magica in collina,
ma non provo più quando la guardo quello che provavo prima,
ladri e profeti di futuro mi hanno portato via parecchio,
il giorno è sempre un po' più oscuro,
sarà forse perché è storia, sarà forse perchè invecchio.
Ma le strade sono piene di una rabbia che ogni giorno urla più forte,
son caduti i fiori e hanno lasciato solo simboli di morte.
Dimmi se son da lapidare, se mi nascondo sempre più,
ma ognuno ha la sua pietra pronta e la prima,
non negare, me la tireresti tu.
Sono più famoso che in quel tempo quando tu mi conoscevi,
non più amici, e un pubblico che ascolta le canzoni in cui credevi,
e forse ridono di me, ma in fondo la coscienza pura,
non rider tu se dico questo,
ride chi ha nel cuore l'odio e nella mente la paura.
Ma non devi credere che questo abbia cambiato la mia vita;
è una cosa piccola, di ieri, che domani è già finita,
son sempre qui a vivermi addosso, ho dai miei giorni quanto basta,
ho dalla gloria quel che posso,
cioè qualcosa che andrà presto quasi come i soldi in tasca.
Non lo crederesti: ho quasi chiuso tutti gli usci all'avventura,
non perché metterò la testa a posto, ma per noia o per paura.
Non passo notti disperate, su quel che ho fatto o quel che ho avuto;
le cose andate sono andate
ed ho per unico rimorso le occasioni che ho perduto.
Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta,
ma la gente che che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta.
Qualcuno è andato per formarsi, chi per seguire la ragione,
chi perché stanco di giocare, bere il vino, sputtanarsi,
ed è una morte un po' peggiore.

IL FRATE
Lo chiamavano "il frate", il nome di tutta una vita,
segno di una fede perduta, di una vocazione finita.
Lo vedevi arrivare vestito di stracci e stranezza,
mentre la malizia dei bimbi rideva della sua saggezza.
Dopo un bicchiere di vino, con frasi un po' ironiche e amare,
parlava in tedesco e in latino, parlava di Dio e Schopenhauer.
E parlava, parlava, con me che lo stavo a sentire
mentre la sera d'estate non voleva morire.
Viveva di tutto e di niente: di vino che muove i ricordi,
di carità della gente, di dèi e filosofi sordi.
Chiacchiere d'un ubriaco, con salti di tempo e di spazio,
storie di sbornie e di amori che non capivano Orazio.
E quelle sere d'estate sapevan di vino e di scienza,
con me che lo stavo a sentire con colta benevolenza.
Ma non ho ancora capito, mentre lo stavo a ascoltare,
chi fosse a prendere in giro, chi dei due fosse a imparare.
Ma non ho ancora capito, fra risa per donne e per Dio,
se fosse lui il disperato o il disperato son io.
Ma non ho ancora capito, con la mia cultura fasulla,
chi avesse capito la vita, chi non capisse ancor nulla.

Disco 2

PICCOLA CITTA'
Piccola città, bastardo posto, appena nato ti compresi,
o fu il fato che in tre mesi mi spinse via?
Piccola città, io ti conosco: nebbia e fumo, non so darvi
il profumo del ricordo che cambia in meglio;
ma sono qui nei pensieri le strade di ieri, e tornano
visi e dolori e stagioni, amori e mattoni che parlano.
Piccola città, io poi rividi le tue pietre sconosciute,
le tue case diroccate da guerra antica;
mia nemica strana, sei lontana coi peccati, fra macerie
e fra giochi consumati dentro al Florida;
cento finestre, un cortile, le voci, le liti e la miseria:
io, la montagna nel cuore, scoprivo l'odore del dopoguerra.
Piccola città, vetrate viola, primi giorni della scuola,
la parola e il mesto odore di religione;
vecchie suore nere, con che fede in quelle sere avete dato
a noi il senso di peccato e di espiazione!
Gli occhi guardavano voi ma sognavan gli eroi, le armi e la bilia;
correva la fantasia verso la prateria, fra la Via Emilia e il West.
Sciocca adolescenza, falsa e stupida innocenza, continenza,
vuoto mito americano di terza mano;
pubertà infelice, spesso urlata a mezza voce, a toni acuti,
casti affetti denigrati, cercati invano;
se penso a un giorno o a un momento ritrovo soltanto malinconia;
è tutto un incubo scuro, un periodo di buio gettato via.
Piccola città, vecchia bambina, che mi fu tanto fedele,
a cui fui tanto fedele, tre lunghi mesi;
angoli di strada, testimoni degli erotici miei sogni,
frustrazioni e amori a vuoto, mai compresi.
Dove sei ora, che fai? Neghi ancora o ti dài, sabato sera?
Quelle di adesso disprezzi o invidi e singhiozzi se passano davanti a te?
Piccola città, vecchi cortili, sogni e di primaverili, rime e fedi giovanili,
bimbe ora vecchie; piango e non rimpiango la tua polvere e il tuo fango,
le tue vite, le tue pietre, l'oro e il marmo, le catapecchie;
così diversa sei adesso, io son sempre lo stesso, sempre diverso:
cerco le notti ed il fiasco, se muoio rinasco, finché non finirà

VENEZIA
Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare,
la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi,
Venezia la vende ai turisti
che cercano in mezzo alla gente l'Europa o l'Oriente,
che guardano alzarsi alla sera il fumo o la rabbia di Porto Marghera.
Stefania era bella, Stefania non stava mai male,
ma è morta di parto gridando in un letto sudato di un grande ospedale.
Aveva vent'anni, un marito, e l'anello nel dito;
mi han detto confusi i parenti che quasi il respiro inciampava nei denti.
Venezia è un albergo, San Marco è senz'altro anche il nome di una pizzeria,
la gondola costa, la gondola è solo un bel giro di giostra.
Stefania d'estate giocava con me nelle vuote domeniche d'ozio.
Mia madre parlava, sua madre vendeva Venezia in negozio.
Venezia è anche un sogno, di quelli che puoi comperare,
però non ti puoi risvegliare con l'acqua alla gola,
e un dolore al livello del mare.
Il Doge ha cambiato di casa, e per mille finestre c'è solo
il vagito di un bimbo che è nato, c'è solo la sirena di Mestre.
Stefania affondando, Stefania ha lasciato qualcosa:
Novella Duemila e una rosa sul suo comodino,
Stefania ha lasciato un bambino.
Non so se ai parenti gli ha fatto davvero del male,
vederla morire ammazzata,
morire da sola in un grande ospedale.
Venezia è un imbroglio che riempie la testa soltanto di fatalità,
del resto del mondo non sai più una sega,
Venezia è la gente che se ne frega.
Stefania è un bambino, comprare o smerciare Venezia sarà il suo destino,
può darsi che un giorno saremo contenti di esserne solo lontani parenti.

BOLOGNA
Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po' molli,
col seno sul piano padano ed il culo sui colli.
Bologna arrogante e papale, Bologna la rossa e fetale,
Bologna la grassa e l'umana, già un poco Romagna e in odor di Toscana.
Bologna per me provinciale Parigi minore,
mercati all'aperto, bistrots, della "rive gauche" l'odore,
con Sartre che pontificava, Baudelaire fra l'assenzio cantava
ed io, modenese volgare, a sudarmi un amore, fosse pure ancillare.
Però che bohème confortevole, giocata fra casa e osterie,
quando a ogni bicchiere rimbalzano le filosofie.
Oh, quanto eravamo poetici, ma senza pudore o paura
e i vecchi "imbariaghi" sembravano la letteratura.
Oh, quanto eravam tutti artistici, ma senza pudore o vergogna,
cullati fra i portici-cosce di mamma Bologna.
Bologna è una donna emiliana di zigomo forte,
Bologna capace d'amore, capace di morte,
che sa quel che conta e che vale, che sa dov'è il sugo del sale,
che calcola il giusto la vita, e che sa stare in piedi per quanto colpita.
Bologna è una ricca signora che fu contadina,
benessere, ville, gioielli e salami in vetrina,
che sa che l'odor di miseria da mandare giù è cosa seria
e vuole sentirsi sicura con quello che ha addosso, perché sa la paura.
Lo sprechi il tuo odor di benessere però con lo strano binomio
dei morti per sogni davanti al tuo Santo Petronio
e i tuoi bolognesi, se esistono, ci sono od ormai si son persi,
confusi e legati a migliaia di mondi diversi?
ma quante parole ti cantano, cullando i cliché della gente
cantando canzoni che è come cantare di niente.
Bologna è una strana signora, volgare e matrona,
Bologna bambina per bene, Bologna busona,
Bologna ombelico di tutto, mi spingi a un singhiozzo e ad un rutto,
rimorso per quel che m'hai dato, che è quasi ricordo, e in odor di passato.

ESKIMO
Questa domenica in Settembre non sarebbe pesata così;
l'estate finiva più nature vent'anni fa o giù di lì.
Con l'incoscienza dentro al basso ventre e alcuni audaci in tasca l'Unità,
la paghi tutta, e a prezzi d'inflazione, quella che chiaman la maturità.
Ma tu non sei cambiata di molto, anche se adesso è al vento quello che
io per vederlo ci ho impiegato tanto filosofando pure sui perché.
Ma tu non sei cambiata di tanto e se cos'è un orgasmo ora lo sai
potrai capire i miei vent'anni allora? E i quasi cento adesso capirai?
Portavo allora un eskimo innocente dettato solo dalla povertà:
non era la rivolta permanente, diciamo che non c'era e tanto fa;
portavo una coscienza immacolata che tu tendevi a uccidere però
inutilmente ti ci sei provata con foto di famiglia o paletò.
E quanto son cambiato da allora e l'eskimo che conoscevi tu
lo porta addosso mio fratello ancora e tu lo porteresti e non puoi più.
Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà:
tu giri adesso con le tette al vento, io ci giravo già vent'anni fa.
Ricordi? Fui con te a Santa Lucia, al portico dei Servi per Natale:
credevo che Bologna fosse mia, ballammo assieme all'anno o a Carnevale.
Lasciammo allora tutti e due un qualcuno che non ne fece un dramma o non lo so
ma con i miei maglioni ero a disagio e mi pesava quel tuo paletò,
ma avevo la rivolta fra le dita, dei soldi in tasca niente e tu lo sai
e mi pagavi il cinema stupita e non ti era toccato farlo mai.
Perché mi amavi non l'ho mai capito, così diverso da quei tuoi cliché;
perché fra i tanti, bella, che hai colpito ti sei gettata addosso proprio a me?
Infatti i fiori della prima volta non c'erano già più nel '68:
scoppiava finalmente la rivolta, oppure in qualche modo mi ero rotto;
tu li aspettavi ancora ma io già urlavo che Dio era morto, a monte, ma però
contro il sistema anch'io mi ribellavo... cioè, sognando Dylan e i provos,
e Gianni ritornato da Londra a lungo ci parlò dell'LSD:
tenne una quasi conferenza colta sul suo viaggio di nozze stile freak.
E noi non l'avevamo mai fatto, e noi che non l'avremmo fatto mai
quell'erba ci cresceva tutt'attorno, per noi crescevan solo i nostri guai.
Forse ci consolava far l'amore ma precari in quel senso si era già:
un buco da un amico, un letto a ore su cui passava tutta la città.
L'amore fatto alla boia d'un Giuda e al freddo in quella stanza di altri e spoglia:
vederti o non vederti tutta nuda era un fatto di clima e non di voglia.
E adesso che potremmo anche farlo, e adesso che problemi non ne ho...
che nostalgia per quelli contro un muro o dentro a un cine o là dove si può,
e adesso che sappiamo quasi tutto, e adesso che problemi non ne hai,
per nostalgia lo rifaremmo in piedi scordando la moquette stile e l'Hi-Fi.
Diciamolo per dire, ma davvero, si ride per non piangere perché
se penso a quella ch'eri, a quel che ero, che compassione che ho per me e per te.
Eppure a volte non mi spiacerebbe essere quelli di quei tempi là.
Sarà per aver quindici anni in meno o avere tutto per possibilità
perché a vent'anni è tutto ancora intero, perché a vent'anni è tutto chi lo sa.
A vent'anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell'età.
Oppure allora si era solo noi, non c'entra o meno questa gioventù
di discussioni, caroselli, eroi: quel ch'è rimasto dimmelo un po' tu.
E questa domenica in Settembre se ne sta lentamente per finire
come le tante, via, distrattamente a cercare di fare o di capire.
Forse lo stan pensando anche gli amici: gli andati, i rassegnati, i soddisfatti,
giocando a dire che si era più felici, pensando a chi s'è perso o no a quei party,
ed io che ho sempre un eskimo addosso uguale a quello che ricorderai,
io come sempre, faccio quel che posso; domani poi ci penserò se mai.
Ed io ti canterò questa canzone uguale a tante che già ti cantai:
ignorala come hai ignorato le altre, e poi saran le ultime oramai...

INCONTRO
E correndo mi incontrò lungo le scale: quasi nulla mi sembrò cambiato in lei.
La tristezza poi ci avvolse come miele, per il tempo scivolato su noi due.
Il sole che calava già, rosseggiava la città,
già nostra e ora straniera e incredibile e fredda;
come un istante "déja vu", ombra della gioventù, ci circondava la nebbia.
Auto ferme ci guardavano in silenzio, vecchi muri proponevan nuovi eroi.
Dieci anni da narrare l'uno all'altro, ma le frasi rimanevan dentro in noi.
"Cosa fai ora, ti ricordi, eran belli i nostri tempi,
ti ho scritto, è un anno, mi han detto che eri ancor via".
Poi la cena a casa sua, la mia nuova cortesia, stoviglie color nostalgia.
E le frasi quasi fossimo due vecchi, rincorrevan solo il tempo dietro a noi.
per la prima volta vidi quegli specchi, capii i quadri, i soprammobili ed i suoi.
I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway,
il sentirsi nuovi, le cose sognate e ora viste,
la mia America e la sua, diventate nella via la nostra città tanto triste.
Carte e vento volan via nella stazione, freddo e luci accese forse per noi lì,
ed infine in breve la sua situazione, uguale quasi a tanti nostri film:
come in un libro scritto male lui s'era ucciso per natale,
ma il triste racconto sembrava assorbito dal buio.
Povera amica che narravi dieci anni in poche frasi, ed io i miei in un solo saluto.
E pensavo dondolato dal vagone: "Cara amica, il tempo prende e il tempo dà.
Noi corriamo sempre in una direzione, ma qual sia e che senso abbia chi lo sa.
Restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento,
le luci nel buio, di case intraviste da un treno.
Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa, e il cuore di simboli pieno."

VEDI CARA
Vedi cara, è difficile a spiegare,
è difficile parlare dei fantasmi di una mente.
Vedi cara, tutto quel che posso dire
è che cambio un po' ogni giorno, è che sono differente.
Vedi cara, certe volte sono in cielo
come un aquilone al vento che poi a terra ricadrà.
Vedi cara, è difficile a spiegare,
è difficile capire se non hai capito già...
Vedi cara, certe crisi son soltanto
segno di qualcosa dentro che sta urlando per uscire.
Vedi cara certi giorni sono un anno,
certe frasi sono un niente che non serve più sentire.
Vedi cara le stagioni ed i sorrisi
son denari che van spesi con dovuta proprietà.
Vedi cara è difficile a spiegare,
è difficile capire se non hai capito già...
Non capisci quando cerco in una sera
un mistero d' atmosfera che è difficile afferrare,
quando rido senza muovere il mio viso,
quando piango senza un grido, quando invece vorrei urlare,
quando sogno dietro a frasi di canzoni,
dietro a libri e ad aquiloni, dietro a ciò che non sarà...
Vedi cara è difficile a spiegare,
è difficile capire se non hai capito già...
Non rimpiango tutto quello che mi hai dato
che son io che l'ho creato e potrei rifarlo ora,
anche se tutto il mio tempo con te non dimentico perchè
questo tempo dura ancora.
Non cercare in un viso la ragione,
in un nome la passione che lontano ora mi fa.
Vedi cara è difficile a spiegare,
è difficile capire se non hai capito già...
Tu sei molto, anche se non sei abbastanza,
e non vedi la distanza che è fra i miei pensieri e i tuoi,
tu sei tutto, ma quel tutto è ancora poco,
tu sei paga del tuo gioco ed hai già quello che vuoi.
Io cerco ancora e così non spaventarti
quando senti allontanarmi: fugge il sogno, io resto qua!
Sii contenta della parte che tu hai,
ti do quello che mi dai, chi ha la colpa non si sa.
Cerca dentro per capir quello che sento,
per sentir che ciò che cerco non è il nuovo o libertà...
Vedi cara è difficile a spiegare,
è difficile capire se non hai capito già...

UN ALTRO GIORNO E' ANDATO
E un altro giorno è andato, la sua musica ha finito,
quanto tempo è ormai passato e passerà!
Le orchestre di motori ne accompagnano i sospiri,
l'oggi dove è andato l'ieri se ne andrà.
Se guardi nelle tasche della sera ritrovi le ore che conosci già,
ma il riso dei minuti cambia in pianto ormai e il tempo andato non ritroverai.
Giornate senza senso, come un mare senza vento,
come perle di collane di tristezza;
Le porte dell'estate dall'inverno son bagnate,
fugge un cane come la tua giovinezza.
Negli angoli di casa cerchi il mondo, nei libri e nei poeti cerchi te,
ma il tuo poeta muore e l'alba non vedrà e dove corra il tempo chi lo sa?
Nel sole dei cortili i tuoi fantasmi giovanili
corron dietro a delle silvie beffeggianti:
si è spenta la fontana, si è ossidata la campana,
perché adesso ridi al gioco degli amanti?
Sei pronto per gettarti sulle strade, l'inutile bagaglio è dentro in te,
ma temi il sole e l'acqua prima o poi cadrà e il tempo andato non ritornerà.
Professionisti acuti fra i sorrisi ed i saluti
ironizzano i tuoi dubbi sulla vita.
Le madri dei tuoi amori sognan trepide dottori,
ti rinfacciano una crisi non chiarita.
La sfera di cristallo si è offuscata, e l'aquilone tuo non vola più.
Nemmeno il dubbio resta nei pensieri tuoi e il tempo passa e fermalo se puoi.
Se i giorni ti han chiamato tu hai risposto da svogliato,
il sorriso degli sepcchi è già finito.
Nei vicoli e sui muri quel buffone che tu eri è rimasto solo a pianger divertito.
Nel seme al vento afferri la fortuna, al rosso saggio chiedi i tuoi perché,
vorresti alzarti in cielo a urlare chi sei tu, ma il tempo passa e non ritorna più.
E un altro giorno è andato, la sua musica ha finito,
quanto tempo è ormai passato e passerà!
Tu canti nella strada frasi a cui nessuno bada,
il domani come tutto se ne andrà.
Ti guardi nelle mani e stringi il vuoto: se guardi nelle tasche troverai
gli spiccioli che ieri non avevi ma il tempo andato non ritornerà.

CANZONE QUASI D'AMORE
Non starò più a cercare parole che non trovo per dirti cose vecchie con il vestito nuovo,
per raccontarti il vuoto che, al solito, ho di dentro e partorire il topo vivendo sui ricordi, giocando coi miei giorni, col tempo.
O forse vuoi che dica che ho i capelli più corti, o che per le mie navi son quasi chiusi i porti,
io parlo sempre tanto ma non ho ancora fedi, non voglio menar vanto di me o della mia vita, costretta come dita dei piedi.
Queste cose le sai, perché siam tutti uguali, e moriamo ogni giorno dei medesimi mali,
perché siam tutti soli ed è nostro destino tentare goffi voli d'azione o di parola,
volando come vola il tacchino.
Non posso farci niente e tu puoi fare meno, sono vecchio d'orgoglio,
mi commuove il tuo seno,
e di questa parola io quasi mi vergogno ma c'è una vita sola: non ne sprechiamo niente in tributi alla gente o al sogno.
Le sere sono uguali ma ogni sera è diversa e quasi non ti accorgi dell'energia dispersa
a ricercare i visi che ti han dimenticato vestendo abiti lisi buoni ad ogni evenienza, inseguendo la scienza o il peccato.
Tutto questo lo sai e sai dove comincia la grazia o il tedio a morte del vivere in provincia,
perché siam tutti uguali: siamo cattivi, buoni, e abbiam gli stessi mali: siamo vigliacchi e fieri, saggi, falsi, sinceri, coglioni.
Ma dove te ne andrai? Ma dove sei già andata? Ti dono, se vorrai, questa noia già usata:
tienila in mia memoria, ma non è un capitale, ti accorgerai da sola, nemmeno dopo tanto, che la noia di un altro, non vale.
D'altra parte, lo vedi: scrivo ancora canzoni e pago la mia casa, pago le mie illusioni,
fingo d'aver capito che vivere è incontrarsi, aver sonno, appetito, far dei figli, mangiare, bere, leggere, amare, grattarsi.

LA LOCOMOTIVA
Non so che viso avesse, neppure come si chiamava,
con che voce parlasse, con quale voce poi cantava,
quanti anni avesse visto allora, di che colore i suoi capelli,
ma nella fantasia ho l'immagine sua: gli eroi sono tutti giovani e belli.
Conosco invece l'epoca dei fatti, qual era il suo mestiere:
i primi anni del secolo, macchinista, ferroviere.
I tempi in cui si cominciava la guerra santa dei pezzenti:
sembrava il treno anch'esso un mito di progresso, lanciato sopra i continenti.
E la locomotiva sembrava fosse un mostro strano,
che l'uomo dominava con il pensiero e con la mano:
ruggendo si lasciava indietro distanze che sembravano infinite,
sembrava avesse dentro un potere tremendo, la stessa forza della dinamite.
Ma un'altra grande forza spiegava allora le sue ali:
parole che dicevano "gli uomini sono tutti uguali",
e contro ai re e ai tiranni scoppiava nella via
la bomba proletaria, e illuminava l'aria la fiaccola dell'anarchia.
Un treno tutti i giorni passava per la sua stazione:
un treno di lusso, lontana destinazione.
Vedeva gente riverita, pensava a quei velluti, agli ori,
pensava al magro giorno della sua gente attorno, pensava un treno pieno di signori.
Non so che cosa accadde, perché prese la decisione.
Forse una rabbia antica, generazioni senza nome
che urlarono vendetta, gli accecarono il cuore,
dimenticò pietà, scordò la sua bontà, la bomba sua la macchina a vapore.
E sul binario stava la locomotiva:
la macchina pulsante sembrava fosse cosa viva,
sembrava un giovane puledro che appena liberato il freno
mordesse la rotaia con muscoli d'acciaio, con forza cieca di baleno.
E un giorno come gli altri, ma forse con più rabbia in corpo,
pensò che aveva il modo di riparare a qualche torto:
salì sul mostro che dormiva, cercò di mandar via la sua paura,
e prima di pensare a quel che stava a fare, il mostro divorava la pianura.
Correva l'altro treno ignaro, quasi senza fretta:
nessuno immaginava di andare verso la vendetta.
Ma alla stazione di Bologna arrivò la notizia in un baleno:
"Notizia di emergenza, agite con urgenza, un pazzo si è lanciato contro il treno!"
Ma intanto corre, corre, corre la locomotiva,
e sibila il vapore, sembra quasi cosa viva,
e sembra dire ai contadini curvi, il fischio che si spande in aria:
"Fratello non temere, che corro al mio dovere! Trionfi la giustizia proletaria!"
E intanto corre corre corre sempre più forte,
e corre, corre, corre, corre verso la morte,
e niente ormai può trattenere l'immensa forza distruttrice,
aspetta sol lo schianto e poi che giunga il manto della grande consolatrice.
La storia ci racconta come finì la corsa:
la macchina deviata lungo una linea morta.
Con l'ultimo suo grido d'animale la macchina eruttò lapilli e lava,
esplose contro il cielo, poi il fumo sparse il velo, lo raccolsero che ancora respirava.
Ma a noi piace pensarlo ancora dietro al motore,
mentre fa correr via la macchina a vapore,
e che ci giunga un giorno ancora la notizia
di una locomotiva come una cosa viva, lanciata a bomba contro l'ingiustizia!